di Sonia Cicognani Pagano
Vi è una premessa custodita gelosamente nei libri esoterici
della Cristianità, ci ricorda Anne Dillard: vi si ammette
l’esistenza di una materia creata che, benché inferiore ai
metalli e ai minerali sul piano spirituale, tocca l’Assoluto. La
materia prima aristotelica? Il circolo ininterrotto del nostro essere
fra la gravitazione viscerale planetaria e la spinta verso lo Assoluto?
Stiamo guardando uno degli studi di Francesco Antonacci per il suo mega quadro e ai nostri quesiti si sta formulando una risposta. È un olio - il mezzo prediletto del pittore - e rappresenta una mano: da dita che colpiscono per la loro quasi adunca attenuazione nascono e s’intersecano forme, movimenti, luci e ombre ancora attaccati al palmo e l’ allungamento delle dita è infatti il formarsi di corpi umani in bilico, quasi pronti ad essere scagliati nel Cosmo.
Nel palmo della mano un grumo di materia da cui si formano i corpi.
Un grumo di colore delicato, madreperlaceo: argilla? placenta? materia prima?
Il titolo dello studio è: BIG BANG N.1
Una risposta che impone immediatamente altre domande per la cripticità della numerazione. Tutto è detto semplicemente, superlativamente, solo con il colore. Che Antonacci sapeva disegnare ne siamo a conoscenza; lo abbiamo ammirato nelle sue argute processioni, nelle poesia dei suoi paesaggi, nelle sue chiese di Roma svettanti nella trasparenza di un arcobaleno, nei suoi grandi nudi muliebri scanditi dalla minuziosa osservazione di una iride magnificata.
E adesso con questa mano che manipola eppure crea, che racchiude e poi disperde inizia un ciclo così duramente pensato che non possiamo guardare questi studi senza che l’ammirazione diventi riflessiva e si sia portati a voler interpretare a tutti costi, meditare, definire. Ma non è facile.
La prima definizione che balza alla mente è quella cosmica, se l’aggettivo "cosmico" non fosse ormai diventato un clichè in certa pittura nuova che noi crediamo erroneamente.
Perché il cosmo non è fantascienza, è Realtà, nell’accezione più vera, più cruda, più difficile. Antonacci lo sapeva, lo ha sempre saputo.
Non è cosmico ed è forse inutile tentare nuovi e sempre più complicati impasti di colore, tanto il laico continuerà a vedere la Natura che lo circonda come ha sempre fatto così come il vero iniziato gliela descrive, e fin qui nulla è cambiato, ma è cosmico il sentire che ad una gamma di colori così fortemente, visceralmente, in modo sì immanente si impone il compito non solo di tradurla, ma di cercarne le motivazioni. E in questi studi Antonacci è singolarmente cosmico. Il suo colore è diventato forma e vibrazione, orgia e preghiera, sessualità ed elevazione. Il colore, che è forse il più moderno fra i sensi della percezione umana, qui è incontrastato, invade il campo da vincitore, fuga ogni dubbio, unisce tutte le ambivalenze e danza, canta, si frantuma, si ricompone lambendo sponde che ritenevamo inaccessibili, si raffredda per poi riesplodere urgente, bruciante.
Al di là delle teorie dei grandi coloristi del neo-impressionismo, Antonacci non si preoccupava di trovare procedimenti per la sua sintesi luce-colore, ma spontaneamente il suo colore diventava luce e, colpendo la retina con un vigore tutto nuovo, si muove e prende forma al punto che la retina ne trattiene l’immagine anche quando ne è distolta.
Corpi di donna succosi come frutti del bene e del male palpitano contro l’onda minacciosa dell’inevitabile, l’uomo appare, intriso di sole, orgiastico e distaccato. La collina si satura d’afa e si immobilizza, ma il cielo si apre di vento e la scuote implacabile.
I miti (o la realtà) emergono vibrando dal colore: Osiris si smembra e si disperde nello Universo per formare le galassie, Diana caccia, ride e piange lacrime premonitrici per il toro abbattuto, Orfeo suona il Reggae o s’inventa il Dixieland e le tre Parche abbandonano il sagace lavoro di tessitrici per alzare le braccia e cantare. Antichi guerrieri avanzano con lance e picche alla ricerca del Sacro Graal, non sapendo, - ma il pittore ce lo lascia intravedere - che l’Assoluto è già alle loro spalle. Riti tribali per oscure propiziazioni si compiono in pieno giorno mentre la fauna osserva immota, le nuvole si allacciano ma non si impigliano tanto è magistrale e ferma la pennellata nel colore, forte ma non duro, violento ma non caparbio, a volte tenero ma senza sbavature.
E il Cristo che tutto unisce come in una rete dove nessuna maglia può cadere, il Cristo che è forse la chiave della materia prima fatta a stella, la chiave del pianeta Uomo, con tutto ciò che la sineddoche implica, nasce, si fa crocifiggere, scende dalla Croce e vi risale per non mancare al nostro eterno appuntamento con la Luce.
E soprattutto, prima di tutto la libertà con il peso catartico della parola.
E questa è forse la catalogazione definitiva.
Stiamo guardando uno degli studi di Francesco Antonacci per il suo mega quadro e ai nostri quesiti si sta formulando una risposta. È un olio - il mezzo prediletto del pittore - e rappresenta una mano: da dita che colpiscono per la loro quasi adunca attenuazione nascono e s’intersecano forme, movimenti, luci e ombre ancora attaccati al palmo e l’ allungamento delle dita è infatti il formarsi di corpi umani in bilico, quasi pronti ad essere scagliati nel Cosmo.
Nel palmo della mano un grumo di materia da cui si formano i corpi.
Un grumo di colore delicato, madreperlaceo: argilla? placenta? materia prima?
Il titolo dello studio è: BIG BANG N.1
Una risposta che impone immediatamente altre domande per la cripticità della numerazione. Tutto è detto semplicemente, superlativamente, solo con il colore. Che Antonacci sapeva disegnare ne siamo a conoscenza; lo abbiamo ammirato nelle sue argute processioni, nelle poesia dei suoi paesaggi, nelle sue chiese di Roma svettanti nella trasparenza di un arcobaleno, nei suoi grandi nudi muliebri scanditi dalla minuziosa osservazione di una iride magnificata.
E adesso con questa mano che manipola eppure crea, che racchiude e poi disperde inizia un ciclo così duramente pensato che non possiamo guardare questi studi senza che l’ammirazione diventi riflessiva e si sia portati a voler interpretare a tutti costi, meditare, definire. Ma non è facile.
La prima definizione che balza alla mente è quella cosmica, se l’aggettivo "cosmico" non fosse ormai diventato un clichè in certa pittura nuova che noi crediamo erroneamente.
Perché il cosmo non è fantascienza, è Realtà, nell’accezione più vera, più cruda, più difficile. Antonacci lo sapeva, lo ha sempre saputo.
Non è cosmico ed è forse inutile tentare nuovi e sempre più complicati impasti di colore, tanto il laico continuerà a vedere la Natura che lo circonda come ha sempre fatto così come il vero iniziato gliela descrive, e fin qui nulla è cambiato, ma è cosmico il sentire che ad una gamma di colori così fortemente, visceralmente, in modo sì immanente si impone il compito non solo di tradurla, ma di cercarne le motivazioni. E in questi studi Antonacci è singolarmente cosmico. Il suo colore è diventato forma e vibrazione, orgia e preghiera, sessualità ed elevazione. Il colore, che è forse il più moderno fra i sensi della percezione umana, qui è incontrastato, invade il campo da vincitore, fuga ogni dubbio, unisce tutte le ambivalenze e danza, canta, si frantuma, si ricompone lambendo sponde che ritenevamo inaccessibili, si raffredda per poi riesplodere urgente, bruciante.
Al di là delle teorie dei grandi coloristi del neo-impressionismo, Antonacci non si preoccupava di trovare procedimenti per la sua sintesi luce-colore, ma spontaneamente il suo colore diventava luce e, colpendo la retina con un vigore tutto nuovo, si muove e prende forma al punto che la retina ne trattiene l’immagine anche quando ne è distolta.
Corpi di donna succosi come frutti del bene e del male palpitano contro l’onda minacciosa dell’inevitabile, l’uomo appare, intriso di sole, orgiastico e distaccato. La collina si satura d’afa e si immobilizza, ma il cielo si apre di vento e la scuote implacabile.
I miti (o la realtà) emergono vibrando dal colore: Osiris si smembra e si disperde nello Universo per formare le galassie, Diana caccia, ride e piange lacrime premonitrici per il toro abbattuto, Orfeo suona il Reggae o s’inventa il Dixieland e le tre Parche abbandonano il sagace lavoro di tessitrici per alzare le braccia e cantare. Antichi guerrieri avanzano con lance e picche alla ricerca del Sacro Graal, non sapendo, - ma il pittore ce lo lascia intravedere - che l’Assoluto è già alle loro spalle. Riti tribali per oscure propiziazioni si compiono in pieno giorno mentre la fauna osserva immota, le nuvole si allacciano ma non si impigliano tanto è magistrale e ferma la pennellata nel colore, forte ma non duro, violento ma non caparbio, a volte tenero ma senza sbavature.
E il Cristo che tutto unisce come in una rete dove nessuna maglia può cadere, il Cristo che è forse la chiave della materia prima fatta a stella, la chiave del pianeta Uomo, con tutto ciò che la sineddoche implica, nasce, si fa crocifiggere, scende dalla Croce e vi risale per non mancare al nostro eterno appuntamento con la Luce.
E soprattutto, prima di tutto la libertà con il peso catartico della parola.
E questa è forse la catalogazione definitiva.
Montego Bay, 1987